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"Il popolo che rinuncia alla libertà per la sicurezza, non merita e non avrà né libertà né sicurezza" (Benjamin Franklin)

mercoledì 24 novembre 2010

LA RETE, I MEDIA, IL PRECARIATO: TIRANDO LE SOMME SUL CASO DI POLA CARUSO

 (Riporto questo pezzo per evidenziare tre fattori molto importanti nella società italiana di oggi:

il primo riguarda il problema del precariato, problema sottovalutato da chi un lavoro sicuro ce l'ha o da chi, ancora studente e sotto le coccole di mamma e papà, pensa che i problemi dell'italia siano altri, non chiedendosi nemmeno per quale ragione il diritto al lavoro sia sancito proprio dal primo articolo della nostra Costituzione;

il secondo fattore riguarda la stampa: quella stampa di destra e di sinistra, di centro-destra e di centro-sinistra, di estrema-destra e di estrema-sinistra, che ha operato la piu meschina delle censure. L'autocensura per non esportare il cattivo esempio. Perché tutta la stampa italiana, benché ricca di alti valori, benche antifascista e anti mafiosa, giustizialista, antiabortista, procreazionista, ecc.. tutta la stampa è garantista del precariato! Percui nessun giornalista, pubblicista, stagista o schiavo si è permesso di pubblicare in carta stampata un trafiletto dedicato al caso di Paola Caruso.

il terzo fattore, è la vittoria delle fonti alternative, non solo di energia, ma di informazione. In questo caso la vittoria di Internet e dei BLOG! Quei blog a cui il ministro Alfano (e non solo!!!) vorrebbe mettere il silenziatore hanno vinto una battaglia, quella di essersi fatti ascoltare da milioni di persone nonostante il silenzio solidare di stampa e tv. 
Da giornalista, dev'essere stata dura, per Paola Caruso, udire lungo lo stivale l'eco del silenzio dei suoi colleghi. Eppure anzicchè lasciarsi tirar giu dalla corrente (a volte mancano le forze altre volte la volontà) ha tirato il media-nemico dell'informazione tradizionale, sfruttandone e mettendone in evidenza l'alto potenziale.

Ho sempre creduto nel valore dell'informazione alternativa e la storia di Paola Caruso, conferma indirettamente anche il nostro ruolo, seppur piccolo, in questa società.

tratto da El Aleph
di Gero Miccichè

Diciamolo chiaramente: in un paese dove il costo della vita cresce proporzionalmente all'inflazione e al debito pubblico, la condizione del lavoratore medio si fa, di anno in anno, sempre meno piacevole.
Da quando poi concetti come quello di flessibilità e mobilità del lavoro hanno preso piede nell'alveo dell'odierno sistema economico, si è assistito a una degenerazione che ha prodotto "mostri" come la figura del precario.
Il precario è quella moderna creatura mitologica che vive dimenandosi nel guano del mercato del lavoro in cambio di un compenso ai limiti della sussistenza mensile.
Cosa succede se, stanco della quotidiana offesa alla propria dignità, un lavoratore precario dà vita singolarmente a una protesta per migliorare le proprie condizioni? Viene spontaneo chiedersi se il dissenso sia finalizzato al miglioramento di diritti rispondenti a interessi generali o se sia semplicemente strumentale a soddisfare il bisogno del singolo "dissidente".
Il caso di Paola Caruso ha certamente più punti di controversa interpretazione: nel precedente post, Andrea Coccia (mosso dalla "sacra fiamma" civile che da sempre anima la sua scrittura) ha posto l'accento sui limiti di un gesto di protesta individuale nel soffocante contesto dell'odierno mercato del lavoro. Nel primo articolo, pubblicato su questo blog qualche giorno fa, riguardante il caso dello sciopero della fame della giornalista precaria del Corriere, esprimeva le stesse preoccupazioni che ora vede avverarsi con l' "happy ending" di una firma a suggellare un contratto di lavoro.
Un po' quello che i teorici di quella corrente giusfilosofica marxista chiamata "Uso alternativo del diritto" (molto in voga negli ambienti di Magistratura Democratica durante gli anni di piombo) rimproveravano agli operai, l'accondiscendenza verso il "compromesso con lo Stato" per aver accettato lo Statuto dei Lavoratori: una resa, uno scendere a patti con il potere per un pugno di diritti in più, piuttosto che una vittoria o una conquista di classe.
Pur riconoscendo, in termini assoluti, l'ineccepibile linearità del ragionamento di principio e dei suoi risvolti sul piano dell'utilità sociale, mi pare il caso di discettare su quanto di buono abbia tirato fuori il caso-Caruso tastando un nervo scoperto della farraginosa macchina editoriale italiana.

Per chi non conoscesse bene la questione, riporto qui il riassunto della stessa Paola Caruso:
La storia è questa: da 7 anni lavoro per il Corriere e dal 2007 sono una co.co.co. annuale con una busta paga e Cud. Aspetto da tempo un contratto migliore, tipo un art. 2. Per raggiungerlo l’iter è la collaborazione. Tutti sono entrati così. E se ti dicono che sei brava, prima o poi arriva il tuo turno. Io stavo in attesa.
La scorsa settimana si è liberato un posto, un giornalista ha dato le dimissioni [Jacopo Tondelli, ndr], lasciando una poltrona (a tempo determinato) libera. Ho pensato: “Ecco la mia occasione”. Neanche per sogno. Il posto è andato a un pivello della scuola di giornalismo. Uno che forse non è neanche giornalista, ma passa i miei pezzi.
Ho chiesto spiegazioni: “Perché non avete preso me o uno degli altri precari?”. Nessuna risposta. L’unica frase udita dalle mie orecchie: “Non sarai mai assunta.”

Di questa notizia (ditemi se ha più i requisiti per essere considerata "notiziabile" questa storia piuttosto che l'asino Hermann, ieri su vari quotidiani) i grandi media non hanno fatto parola: non un trafiletto sui giornali concorrenti (Repubblica, La Stampa, Il Giornale) né un veloce lancio su alcun TG nazionale.
Nel merito, mi sento autorizzato a pensar male, a trarne la conclusione che questo silenzio sia davvero figlio di un'omertà di casta atta a proteggere le storture di uno status quo nelle quali i gruppi editoriali italiani sguazzano impunemente. Scomodo parlare della protesta di un precario per aziende che abbattono i costi di bilancio facendo leva sul precariato diffuso.
La protesta della Caruso, pur ignorata dai media nazionali, ha comunque attirato l'attenzione della FNSI, del Coordinamento nazionale giornalisti disoccupati e precari, delle sedi regionali dell'Ordine dei giornalisti; anche il presidente dell'ordine nazionale, Enzo Iacopino, ha manifestato in un pezzo la propria solidarietà alla Caruso.

La vera rivelazione (o, se vogliamo, l'incoraggiante conferma) sta però nella risposta della grande rete: in una società in cui Paola Caruso sarebbe un tempo stata vox clamans in deserto, sepolta dalla fitte sabbie dei grandi media, nell'era di internet il suo è stato un grido che ha trovato più che buona eco nella cassa di risonanza del world wide web. Più portali d'informazione, blog, e-magazines, hanno dato spazio alla storia della giornalista precaria del Corriere della Sera. La quale ha dato personalmente voce (e immagini) alla propria protesta tramite un blog titolato ad hoc Diario di uno sciopero, neanche a dirlo.
Fino a vent'anni fa (forse anche quindici) sarebbero venute a conoscenza del suo caso poche decine di persone: adesso più siti internet parlano di lei e del suo digiuno forzato, dividendosi in critiche o gesti solidali. Questo ci conferma quel che da tempo diciamo di sapere ma che di tanto in tanto rischiamo di dimenticare o sottovalutare: è la rete il vero media, il mezzo di comunicazione puro (con tutti i pro ma anche i contro del caso) atto a realizzare un'effettiva democratizzazione della parola, dell'informazione, della diffusione delle idee, della condivisione dei concetti; e, come tale, va preservata e protetta strenuamente dai tentativi di censura o infiltrazione da parte dei poteri forti, di chi è in cima all'establishment attuale (lo sapevate che è stata stilata tempo fa una singolare classifica dei paesi i cui Governi si rivolgono più di frequente a Google per chiedere la rimozione dei contenuti pubblicati online o l'accesso ai dati degli utenti? Sapevate che l'Italia si piazza rispettivamente al settimo e sesto posto per numero di richieste? Date un'occhiata qui)

C'è un'altra questione che questa storia ha riportato alla luce: quella della funzione delle scuole di giornalismo riconosciute dall'OdG, i cui allievi vengono ammessi all'esame di Stato per l'esercizio della professione.
Il Coordinamento nazionale giornalisti disoccupati e precari giudica questa pratica (trovandomi, in linea di principio, pienamente d'accordo) una "violazione della legge sull'ordinamento della professione giornalistica" che "ha falsato le regole del mercato del lavoro giornalistico in Italia." E mi pare sacrosanto che si auspichi "un immediato ritorno al rispetto dell’articolo 34 della legge 69 del 1963 - vale a dire che ad ogni praticante corrisponda un contrattualizzato e non uno pseudo giornalista delle testate all’uopo fondate dalle scuole - e l’individuazione dei responsabili di quello che appare un vero e proprio abuso di potere da parte dell’Ordine dei giornalisti."
Insomma, per quanto possa rammaricare la mancanza di uno spirito collettivo che unisca i precari in una protesta "di classe", quel che più mi spaventa è la direzione in cui continua a muoversi la "grande macchina": nella sua omertà mediatica, nel suo conservatorismo, nello sfruttamento dei contratti precari come fila atte a muovere a proprio piacimento pedine silenti, eventualmente riciclabili, fungibili.
L'uso deliberato (ai limiti dell'incondizionato) dello strumento dei contratti di lavoro precario costituisce uno schiaffo in pieno volto alla dignità umana, una tarpazione di slanci e sogni di giovani (e non) che rischiano di restare arenati per decenni in condizioni ai limiti della sussistenza, non trovando le proprie aspirazioni di crescita lavorativa soddisfatte da una realizzazione materiale (la cosiddetta "promozione", l'elevazione graduale dallo stato di instabilità) proporzionale all'impegno annuale profuso e al trascorrere del tempo. Impossibilitati anche sul piano meramente economico dall'affrancarsi dalla famiglia d'origine (ha coraggio Brunetta a parlar di "bamboccioni" dinanzi a uno scenario così desolante) non avranno i mezzi per costruirne una propria, 'chè i figli sono un costo, e due genitori precari ci penseranno un centinaio di volte prima di metter su famiglia in città come Milano, fra le prime città italiane per offerta di lavoro, ma anche la quattordicesima città del mondo per costo della vita, (vedere l'inchiesta dell'Unità di Ricerca dell'Economist del 2009).
La Caruso ha scagliato un masso che ha increspato le acque dello stagno editoriale. E dalle pagine del suo blog sembra non voler demordere "Desidero continuare a battermi sul tema, confrontandomi con chi ha il potere di garantire cambiamenti concreti. Se la mia storia diventa un esempio e spinge le istituzioni a evitare altri comportamenti del genere, avrò vinto la mia battaglia. La prima battaglia, sia chiaro. La prospettiva è di vincere la guerra."
Quindi, pur concordando riguardo la necessità di un'azione collettiva, voglio dar fiducia alla Caruso, credere che non si accontenterà del suo cantuccio d'ordine contrattualizzato e che continuerà a portare avanti una lotta contro un sistema che penalizza gravemente la gran parte di lavoratori italiani.
Voglio credere che questo colpo di grancassa possa servire a svegliare le coscienze e puntare i fari sulle problematiche legate all'annosa (e, al momento, incontrovertita) tendenza alla precarizzazione del lavoro. Il caso di Paola Caruso deve servire da paradigma, al di là delle intenzioni future della giornalista (per noi ovviamente insondabili).
Bisogna tenere gli occhi fissi sulla questione, far sì che non cali il livello di attenzione. Per questo concordo con quel che ha scritto sul suo blog: "Se vi concentrate su me e non sul problema, la guerra è persa in partenza."
Bisogna prender coscienza, leggere nella scheda madre della grande macchina, capire che siamo parte fondante di un codice sorgente in cui solo i singoli numeri sono sostituibili. Ma, senza l'intero algoritmo, la macchina collassa.

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